martedì 25 gennaio 2022

SI DICE UXORICIDIO COMUNQUE


Sto andando a fare la spesa come ogni mattina e giuro che se quell'impunito del macellaio della Conad mi dice “Cosa diamo a questa bella signora?” gli sputo diritto in un occhio. Bugiardo. Bella signora a chi? Non sicuramente a me che ho le occhiaie che toccano terra, la pancetta che deborda di profilo e i segni labiali che partono dal naso, profondi come i canali di irrigazione della Val Padana. Che poi stamattina la carne non mi serve nemmeno perché ci ho fatto la scorta sabato scorso con il Giulio che ha voluto andare all'inaugurazione del nuovo mega supermercato che hanno aperto vicino a Borgo Valsugana. Quando ha visto il banco della carne ha avuto un orgasmo papillare multiplo, condito da gridolini di sorpresa per via dei prezzi che, a detta sua, erano assolutamente “i più bassi in assoluto che abbia mai visto” che poi, a voler approfondire, mi piacerebbe sapere rispetto a quali, visto che lui la spesa non la fa mai. Ma non gliel'ho chiesto e l'ho lasciato riempire il carrello di fettine, arrosti, puntine, macinati, pollame. Al tacchino intero, tipo Festa del Ringraziamento, ho posto l'alt perché abbiamo un freezer a conduzione familiare e non una cella frigorifera. Si è arreso senza combattere e io mi sono vendicata con una bella scorta di detersivi e detergenti che ora potrei mettere in piedi un'impresa di pulizia.

La chiamo spesa, ma poi in fondo compero soltanto quelle due o tre cose che ho dimenticato la volta prima. E non mi piace neppure tanto andare al supermercato, ma questo è piccolino, è sotto casa ed è un'ottima scusa per uscire a fare due passi evitando così di finire davanti al televisore per sorbirmi Unomattina. Almeno così ci finisco un'oretta dopo, bell'e pettinata, con un filo di trucco e con un vestito decente e non in pigiama con i segni del cuscino ancora sulla faccia.

Ieri ho dimenticato gli stuzzicadenti e il dentifricio sbiancante per Giulio. Non serve nemmeno il carrello, un giretto rapido fra gli scaffali e, dribblando la postazione del bugiardo patentato che se la sta facendo con un'ottantenne, pago ed esco.

Fuori c'è il sole delle nove di mattina di un giorno di luglio. Bello, mi piace, quasi quasi mi concedo una sosta al bar dell'Ezio per un cappuccino e un cornetto e così mi leggo pure il giornale senza comperarlo. Ai tavolini esterni non c'è molta gente, è ancora presto per l'aperitivo e tardi per la colazione dei mattinieri, l'ambiente ideale per una che non ha voglia di scambiare chiacchiere con alcun vivente, almeno fino all'una quando mi tocca interagire con Giulio che torna a casa per il pranzo. Che palle quest'abitudine dell'orario spezzato, non potevo avere anch'io un marito che fa il suo bravo continuato così stavo più leggera a pranzo, sarebbe bastata un'insalatina, invece no: pastasciutta, secondo con contorno e qualche dolcetto per quando si sveglia dal pisolino post-prandium davanti al tiggì. E io mica posso stare lì a guardarlo e allora primo secondo e dolcetto mi spettano d'ufficio con il risultato che ho scoperto di avere la cellulite anche sulle braccia. Per fortuna non abbiamo figli, non ne abbiamo voluti e non li abbiamo cercati e ora, neanche volendo, potremmo averne uno, per raggiunti limiti d'età e perché l'amore non lo facciamo da mesi e dunque la procreazione è ardua, ma va bene così. Me lo faccio andare bene e finora ha funzionato.

Il giornale è un bollettino di guerra: guerre vere, morti sulle strade, nelle case, stupri e governi folli. Do una letta sommaria ai titoli e non approfondisco perché tanto fra qualche ora mi dirà tutto il tiggì e mi dirà anche che Briatore e consorte sono ancora in vacanza e io l'invidierò lavando i piatti e per un attimo mi verrà voglia di andare in soggiorno e soffocare con il cuscino quel signore colla pancia che si è appisolato sul divano e che con Briatore ha in comune la pancia, per l'appunto, e il titolo di studio. Sono entrambi geometri. Io sono ragioniera come la Gregoracci e abbiamo lo stesso nome, Elisabetta l'unica differenza è che noi in vacanza non ci siamo ancora stati quest'anno, se ne parlerà a settembre quando Giulio si prenderà le ferie. Quindici giorni in quel magnifico alberghetto di Jesolo a pensione completa, dove io mi sentirò un virgulto a paragone delle altre ospiti per lo più sui settanta ed esibirò fiera il mio adipe e la mia cellulite sotto gli occhi vogliosi dei loro consorti ottantenni. Bisogna imparare a vedere le cose dal lato positivo, penso, mentre apro la cassetta della posta e fra la bolletta dell'enel e della telecom c'è la busta dell'assicurazione da pagare.

Vediamo a quanto ammonta quest'anno, ma non è la rca auto, bensì un'assicurazione sulla vita che il mio maritino previdente ha acceso ben dieci anni fa, a mia insaputa. Prevede un milione di euro in caso di invalidità permanente e cinquecentomila euro in caso di morte, il tutto intestato a tale Elisabetta Pomini in Vigana nata a Trento il 02/09/1953, cioè io?

Chiaramente. E chi se no? Ma perché non me l'ha mai detto? Ha forse paura che l'ammazzi per riscuotere il premio e andarmene in Messico con l'amante? Impossibile perché io non ho un amante e, anche volendo, dove lo trovo un amante con la faccia che mi ritrovo? Magari un vecchio lo trovo, ma non posso andare in Messico a fare la badante a un vecchio, che senso avrebbe?

Però Ezio prima al bar, mi guardava in un certo modo. Non mi risulta che sia sposato, non è malaccio, non è vecchissimo. Potrei chiedergli di venire in Messico con me, magari partiamo come amici e poi se capita, bene, altrimenti ognuno per la sua strada, ma intanto mi sono ambientata e ho fatto pure qualche amicizia.

Non conosco lo spagnolo, altra lacuna da colmare. Beh, lo imparo, cosa ci vorrà mai e poi assomiglia tantissimo al dialetto trentino, sono pure avvantaggiata rispetto a una milanese o a una romana.

Sono talmente presa dalle mie fantasie che mi dimentico pure di accendere la tivù. Pover'uomo però: lui pensa al mio futuro in caso di sua dipartita prematura e io sono qua che organizzo la mia vita come se fosse già successo. Poco male, in fondo non faccio del male a nessuno, fantastico un po' una vita diversa che mi toglie pure da Unomattina.

A dirla tutta Giulio non mi sembra poi così felice. Nella ditta in cui lavora dice che non l'apprezzano abbastanza, non vede l'ora di andare in pensione per poter costruire i suoi modellini d'aereo e io già immagino il salotto pieno di quei cosi, perché non avrà più la premura di andarsene in garage, mi invaderà la casa. Troverò fusoliere anche in frigo e poi me la scordo la tivù di mattina perché lui dice che è cosa da frustrati, come se non fossimo due frustrati da sempre. Se dipartisse, troverebbe un mondo migliore, senza problemi e io me starei un po' tranquilla a mangiar patatine in Messico in attesa di raggiungerlo, il più tardi possibile.

E poi non lo amo più, forse non l'ho mai amato, anzi mi dà fastidio pure come mangia, è così rumoroso!

Mentre preparo il tavolo penso che però una chance gliela devo. Faccio così. Se quando arriva a pranzo, mi dice che sono più carina del solito, lascio perdere tutto e dividerò con lui i trent'anni che ci rimangono, si è pure allungata l'età media, se non mi dice nulla deciderò il da farsi. A pensarci bene sono circa vent'anni che non pronuncia una frase del genere e allora decido di andargli incontro, truccandomi e pettinandomi in maniera diversa e indossando un vestito che mi stia particolarmente bene.

Mentre sono intenta al restauro penso di sacrificare parte dell'eventuale quota per un buon lifting, perché un conto è andare in Messico con sta faccia, un conto è andarci tutta bella tirata e poi c'è da considerare un guardaroba nuovo, ma sono particolari che perfezionerò in corso d'opera.

Risultato immediato: una pasta scotta servita da un'invitata a un matrimonio.

Giulio: Questa pasta fa schifo, lo sai che mi piace al dente.

Io: Lo so amore (ops, mi è sfuggito), ma mi sono persa un attimo in bagno.

Giulio: E dovevi pulirlo proprio adesso?

Io: Non lo stavo pulendo, mi stavo rassettando (dai Giulio coraggio, basta poco e hai davanti ancora almeno una ventina d'anni)

Giulio: Non potevi farlo dopo?

Io: Era necessario lo facessi adesso (guardami, guardami)

Giulio (con gli occhi fissi sul tiggì) Diventi sempre più matta, dovresti trovare qualcosa da fare. Che ne so, un volontariato.

Io: (ti potrei strozzare ora) Sì, si ci penso. Oh guarda, mi è spuntato un brufolo (alza quegli occhi perdio)

Giulio: Che schifo, sto mangiando

Io: Ok , te la sei voluta

Giulio: Che dici?

Io: La cotoletta con il purè

Mi alzo, vado al fornello e sbatto quella maledetta cotoletta sul piatto piano e la guarnisco con il purè. Avessi dell'arsenico glielo spolvererei sopra subito, ma non ce l'ho e allora gli porto il piatto e me ne vado in bagno mentre lui è alle prese con la campagna elettorale di Obama.

«Signor Giudice, io ho provato a far sì che si salvasse, ma non c'è stato verso. Voleva morire». Mi ripasso la parte davanti allo specchio, magari non mi riesce il delitto perfetto e in quel caso potrò sempre cavarmela con la semi infermità mentale perché ora ho deciso che Giulio deve morire. Devo solo pensare come.

Quando esco dal bagno lo trovo già agonizzante di sonno sul divano ma prima di svenire, mi guarda (miracolo!) e dice: «Perché ti sei conciata così?» chiude gli occhi e inizia il ronzio fastidioso.

Lo ammazzo, ma prima lo torturo.

Mi rimetto la solita vestaglietta e mi appronto a rigovernare la cucina, badando di far più rumore possibile, sono troppo arrabbiata e l'effetto che sortisco è quello di farlo alzare incazzato enunciante la frase :Il caffè lo prendo a bar.

Finalmente sola ho tutto il tempo di studiare un piano per farlo fuori e passo in rassegna tutte le ipotesi possibili. Deve essere un delitto perfetto che sembri un incidente. Escludo subito il veleno. Mi morirebbe in casa e gli farebbero l'autopsia e io verrei interrogata e confesserei subito e non mi servirebbe a nulla e potrei dire addio ai cinquecentomila. Armi bianche, neanche parlarne, il sangue mi fa impressione e poi anche lì quando? Mentre dorme?

Scartate un milione di ipotesi mi resta l'incidente in montagna, un bella spintarella davanti a un precipizio et voilà, niente di più semplice. Si tratta solo di arrivarci in montagna, con quale scusa ce lo porto se sono almeno cinque anni che non ci andiamo?

Mentre gratto con la spugnetta abrasiva, ma non troppo, il fornello dai residui del caffè e dell'olio delle cotolette, mi si affaccia l'illuminazione. Simona Ventura, sì la Ventura sarà la chiave di volta, grazie a lei io diventerò una vedova ricca e con la faccia tirata al punto giusto, magari mi potrebbe pure indicare il suo chirurgo, ma non divaghiamo.

Si dà il caso che la Simo sia l'idolo in assoluto di Giulio e per mia immensa fortuna, stamattina sul giornale del bar ho letto che lei è qua dalle mie parti per prepararsi all'isola dei famosi con tutto il suo seguito di aspiranti naufraghi.

Il massimo della fortuna consiste nel fatto che lei è in MONTAGNA, in un posto che per arrivarci c'è una strada sterrata a strapiombo e poi là intorno sarà pieno di strapiombi. L'idea è ottima, si tratta solo di comunicarla a Giulio e fargliela accettare.

Passo il pomeriggio in una sorta di frenesia adrenalinica, non mi riesce di combinare niente in questa mia nuova veste di aspirante uxoricida, chissà perché bisogna usare un termine nato per i mariti assassini, e girando per la casa mi provo le varie parti che via via dovrò interpretare.

Persuasora occulta, ma neanche poi tanto occulta: Lo sai che c'è la Ventura a Molveno? Perché non ci andiamo così ti fai la foto con lei?

Moglie disperata che ha appena visto il marito sparire in un precipizio: Aiuto 118, correte. Mio marito è caduto e non lo vedo più.

Vedova inconsolabile: Era un brav'uomo, non mi ha mai fatto mancare nulla.

Ci amavamo tanto.

La parte che mi viene meglio direi che è quella della vedova, in fondo dico la verità. Giulio non è cattivo, un po' distratto forse e ha sempre portato i soldi a casa senza mai chiedermene conto. In quanto all'amore, non a caso la forma è al passato.

Finalmente arrivano le otto e sento girare la chiave nella toppa. Ho preparato una cenetta gustosa per predisporlo al meglio e al terzo bicchiere di vino che gli verso, Giulio è persino allegro.

«Devo chiederti una cosa», dico

«Ok ok, ma prima ti annuncio che sabato si va a Molveno. C'è la Ventura con quelli dell'Isola dei famosi e ci terrei tanto a vederla. Quando mai mi ricapita un'occasione simile? Ma che volevi dirmi?» fa lui.

Rimango di sasso e decido di sfruttare quest'ottima occasione. Se decide lui, almeno mi è risparmiato di convincerlo che poi mi vengono gli occhi velati, come sempre quando mento e mi sembra che possano vederli tutti anche se poi lo so solo io.

«Se mi accompagnavi al centro commerciale sabato, ma se c'è la Ventura ci andremo un altro giorno» mento

«Ecco si, un altro giorno» mi dice Giulio e si sprofonda nel tiggì.

Il sabato mattina sono agitatissima e provata da una notte praticamente insonne passata a fare congetture. Saliamo in macchina e Giulio è euforico all'idea di incontrare il suo idolo, deduco.

Decido di farlo morire contento, cioè prima lo lascio conoscere Super Simo e poi, al ritorno, gli chiedo di fermarci a vedere il panorama e gli do una bella spintarella, giù per questo dirupo che proprio ora stiamo rasentando per raggiungere località Pradel dove si trova l'albergo dei Famosi.

Davanti all'Hotel Piccola Baita c'è una folla di persone e infatti fatichiamo non poco per trovare un parcheggio. Urge qualcosa di forte e allora, con la scusa di dover andare in bagno, vado al bar dell'Hotel e mi ordino un bell' amaro di erbe alpine.

Il liquido va giù che è una meraviglia, mi rinfranca un po' e torno fuori sul piazzale in tempo per vedere Giulio, tutto emozionato, che sta parlando con il suo idolo e si sta facendo fare pure l'autografo. Allora mi avvicino, ed estraendo la macchina fotografica dalla borsa, chiedo alla Simo se posso farle una foto con mio marito. Giulio mi guarda piacevolmente sorpreso e poi si mette in posa per l'ultima foto da vivo.

«Certo che è più bella in tivù», mi dice mentre risaliamo in macchina per tornare in valle.

«Le luci e tutto il resto aiutano molto», dico io e poi aggiungo:«Perché non ci fermiamo lungo la strada per guardare il panorama? E' mozzafiato».

«Volevo proportelo io», fa lui e potrebbe anche essere la sua ultima frase.

Lungo la strada si ferma a un piccolo spiazzo e scendiamo. Ho il cuore a mille, ma ormai ho deciso che la mia vita deve cambiare, solo l'idea di tornare a casa e riprendere il solito tran tran mi dà la nausea. Ora o mai più. Mi avvicino a Giulio e faccio per abbracciarlo, ma la mia intenzione è quella di dargli una spinta e farlo precipitare perché il momento e la posizione sono perfetti. In quell'istante, però, passa una macchina e io devo desistere per un attimo dal mio proposito. Giulio sembra non essersi accorto di nulla, si gira verso di me, mi preme una mano sulla schiena e poi dice:

«Scusa Elisabetta, ma mi sono proprio rotto le palle».

Sto volando e fra un po' mi sfracellerò là in fondo e non doveva andare così, non doveva assolutamente andare così.

Aiuto 118 correte. Mia moglie è caduta e non la vedo più.

Ciao cara, sono io Giulio. È fatta. Ancora qualche mese e avremo cinquecentomila euro tutti per noi. Ti amo, sì.


Accidenti a me. Beneficiaria doveva esserci scritto non intestataria della polizza. Ti vedo Giulio da quassù, non te la farò passare liscia. Ero io che dovevo andare in Messico. E poi chi sarebbe sta cara? Avevi un' amante allora? Ecco perché non mi guardavi più.

Lo sai come si chiama quello che hai fatto? Uxoricidio, si chiama uxoricidio, perché io ero tua moglie.

Ma la cosa strana è, che se ti uccidevo io, si sarebbe chiamato uxoricidio comunque. 

Per estensione recita il vocabolario.



 














 

Panta rei, bambina


Quest’uomo silenzioso che lucida con dovizia il suo bancone un po’ ti ricorda, papà.

Sarà per via del suo dopobarba muschiato o, forse, per via degli occhi, tristi come lo erano i tuoi. Mi serve il caffè con un sorriso e qualcosa si apre nel mio cuore e mi porta a quella sera di tanti anni fa, quando ti ho salutato sulla porta e non sapevo che sarebbe stato per l’ultima volta.

Ero una bambina e il pensiero della morte non mi sfiorava nemmeno.

Ti ho rivisto nel letto d’ospedale, ormai privo di conoscenza, pieno di tubicini che tentavano, inutilmente, di tenerti in vita.

Avevi quarantasette anni ed eri stato molto infelice.

Cirrosi epatica fu la diagnosi che ti portò via. Una malattia che ti eri coltivato con cura, fin da quando sono venuta al mondo, non sempre in maniera eclatante, a volte soltanto con un leggero stato di ebbrezza, altre volte, più convinto, ti ho visto barcollare.

Non eri mai aggressivo, eri solo molto triste.

La tua vita non è stata delle più facili: avevi scelto di fare il poliziotto per uscire dalla condizione miserevole di una famiglia dove c’erano troppi figli da sfamare. Poi l'incontro con la mamma che non ti sei reso conto d’amare così tanto, fino al momento in cui ti ha lasciato, portata via da un cancro maligno dal nome straniero.

E la tua unica consolazione fu, ancora una volta, il bicchiere che ti tolse la lucidità nella scelta della tua seconda moglie, una donna arida che non sono mai riuscita a chiamare mamma e che, come per incanto, sparì il giorno dopo del tuo funerale.

Neanche a te piaceva e hai curato la tua delusione a sorsi.

Estraniandoti dal mondo riuscivi a sopravvivere e non so se il tuo lavoro ti piacesse, ma so che i ladruncoli che arrestavi ti facevano una gran pena. Eri buono e ora, nel pensarti, affiora una dolce tenerezza per te, piccolo uomo fragile, e viene a galla il ricordo di quando mi prendevi sulle ginocchia e cantavi le canzoni della tua gioventù.

Ma poi c’erano i momenti tristi, quando rientravi ubriaco e la tua dignità di padre, davanti ai miei occhi di bambina, scompariva.

Mi facevi un po’ paura perché non ti riconoscevo più; dicevi cose senza senso, ripetevi una storia all’infinito e al mattino la tua faccia era tirata e il tuo incedere stanco.


Il barista smette di lucidare il bancone e si avvicina al mio tavolino per prendere la tazzina vuota. Gli sorrido, mi sorride, mentre i suoi occhi rimangono tristi. Non so perché ma ho voglia di dirgli qualcosa.

«Sa, mi ricorda mio padre», sento uscire dalla mia bocca.

«Non sono ricordi belli, vero?», mi chiede e sa già la risposta.

Forse i baristi sono più psicologi degli psicologi, capiscono tutto al volo abituati come sono alla frequentazione dell'umanità variegata e triste che si rifugia nei bar.

«È morto tanti anni fa. Io ero una bambina...», inizio a dire ma non mi lascia finire la frase.

«Lo perdoni, qualsiasi cosa le abbia fatto, qualunque dolore le abbia dato non poteva fare più di così. La vita in fondo è come l'acqua che scorre e porta via tutto, il bello e il brutto e, nel suo andare, quell'acqua pulisce anche il dolore, mi creda».

Raccoglie la mia tazzina e se ne torna dietro al suo banco da lucidare a specchio, poeta inconsapevole consacrato da una rima baciata che gli è sfuggita dalle labbra.

Ripenso a te, papà, e alle parole che non mi hai mai detto e chissà quali sarebbero state. Ne avrei avuto tanto bisogno, sai, quando stavo in collegio e le suore non capivano il mio desiderio di libertà, chiusa come una belva in una gabbia da una matrigna stanca di me.

Tu non eri consapevole che la vita è come uno se la inventa, tu la subivi e basta e allora io ti ho odiato, per lunghissimi anni e con un rimorso latente, ma ti ho odiato. Per quello che non eri stato, perché ti eri tolto di mezzo troppo in fretta a causa di un destino che ti eri costruito a tavolino.

Tutta la mia vita è stata difficile, e sono passata attraverso errori che avevano un solo sotto testo: la mancanza e ho alzato la testa un momento prima di sprofondare nel nulla che mi aspettava al di là della siringa con la quale credevo di iniettarmi la felicità che mi era sempre mancata.

È dolce il nulla, senza pensieri, una finta madre che ti accoglie sempre e nonostante, ma è nulla. Io ho scelto il tutto.

Ora ho quasi trent'anni e tanta acqua è passata sotto i ponti che univano le sponde della mie tante vite. Scorreva quell'acqua e si portava via desolazione e istinti mortali, ma riusciva a lasciare, su qualche isola del cuore, propositi buoni e speranza fatti di sabbia finissima.


Mi alzo e vado alla cassa.

Il vecchio barista mi si avvicina e mi dice che il caffè me lo offre, perché un padre non farebbe mai pagare il caffè a sua figlia.

Lo ringrazio e gli stringo la mano e intanto lo guardo negli occhi.

Se mio padre ci fosse ancora avrebbe circa la sua età.

Ci sorridiamo e, mentre varco la soglia del bar, la sua voce mi raggiunge:

«Panta rei, bambina. Per fortuna, panta rei».



 

Dai tempo al Tempo


Il signor Tempo non ne poteva più di sentirsi tirare da tutte le parti.

«Vorrei che questo momento durasse in eterno», sospirava Rosina fra le braccia del suo amore.

«Uffa, ma quando arriva domenica?», piagnucolava Dorotea che l'amore suo lo vedeva solo una volta alla settimana.

Addirittura c'era qualcuno che lo voleva fermare, come Pina che si vedeva vecchia e aveva soltanto quarant'anni, e davanti allo specchio non faceva che lagnarsi perché diceva che gli anni passavano troppo velocemente e lei non avrebbe mai trovato un marito se il tempo non avesse rallentato la sua corsa.

«Si devono dare una calmata, laggiù», pensava il signor Tempo, «non dipende mica solo da me. Io faccio il mio dovere, che poi è quello di trascorrere, vorrei vedere loro al posto mio».

Le lamentele che gli giungevano lassù erano sempre di più e la rima ci sta bene come un'ora di ginnastica fra l'ora di matematica e quella d'italiano, una pausa necessaria per riprendersi un po'. Ma anche quella passava troppo in fretta e tutti a brontolare quando la campanella segnava la fine di quel bel divertimento. Solo Cirillo era felice che l'ora di ginnastica finisse, lui era un secchione di quelli veri che odiava lo sport e adorava i libri, ma questa è un'altra storia.

Il signor Tempo, dunque, non ce la faceva più perché non è bello fare il proprio dovere mentre tutti ti giudicano e vorrebbero che tu fossi diverso, ma non riusciva a trovare un modo per farlo capire a quelli che stavano laggiù nella Terra Rotonda.

Poi doveva anche tener conto di quelli che lavoravano per lui: i Millenni, i Secoli, gli Anni, i Mesi, le Settimane, i Giorni e le Ore, per citarne solo alcuni, anche se le più considerate erano sicuramente le Ore. Grandi signore quelle! Facevano il loro dovere con assoluta dedizione e tenevano a bada con dolcezza i Minuti e i Secondi, i loro piccoli figlioli. Lavoravano in tutte le parti del mondo e non sempre avevano lo stesso numero sui quadranti degli orologi, anzi quasi mai. Se in America erano le tre del pomeriggio in Italia erano le nove di mattina e in qualche parte dell'Australia erano circa le sette di sera e poi c'era la faccenda dell'ora legale che andava a complicare le cose.

Al di là di questo, però, ci mettevano lo stesso tempo a fare il giro degli orologi, ma in ogni parte del mondo c'era qualcuno che si lamentava. John non vedeva l'ora, è un modo di dire perché le ore le vedeva benissimo, di tornare a casa sua nell'Oregon, perché la guerra in quel paese lontano l'aveva stancato e Melissa, che stava trascorrendo una settimana di vacanza a Disneyland con i suoi genitori, non sarebbe più voluta tornare a casa.

Pensa che ti ripensa il signor Tempo decise di dare una lezione a quell'umanità che borbottava in continuazione e così chiamò a raduno tutti quelli che si preoccupavano di rappresentarlo e ognuno aveva da dire la sua.

«Potrei fare in modo di arrivare in fretta, così la gente potrebbe riposare prima», propose Domenica che era il giorno più scansafatiche degli altri.

«E io non arrivare mai», ribatté ironico Lunedì, che dei giorni era il più odiato.

«State buoni», intervenne il signor Tempo, «non siete voi che potete decidere, spetta alle Ore e ai loro figlioli. Signore Ore, siete disposte a rallentare il vostro giro sul quadrante dell'orologio per una settimana e per un'altra settimana mettervi a correre come forsennate?».

Le Ore si guardarono tra loro un po' spiazzate da quella strana proposta poi l'ora di Mezzogiorno volle dire la sua:

«Ma così sarà un gran caos, non è possibile fare una cosa simile».

Anche le altre erano d'accordo e borbottavano fra loro scuotendo la testa.

«Non saranno mai tutti contenti», azzardò Ventitré che era l'ora col cappello.

«E poi se corriamo tutte come matte rischiamo di schiacciare Minuti e Secondi», disse l'Ora Cinque del mattino che era la più materna perché a quell'ora, di solito, i bimbi piccoli vogliono la poppata mattutina.

«È un rischio che dobbiamo correre», disse il signor Tempo, «io non ne posso più di sentire quella gente laggiù che brontola». Poi si rivolse ai piccoli dicendo: «Minuti e Secondi, per la prima settimana mettetevi il casco così non rischierete di venire schiacciati».

Tutti risero a quell'uscita. Si erano mai visti dei Minuti col casco? I Secondi, poi, così piccini, sotto il casco sarebbero spariti! Ma si decise di fare in quel modo perché era in ballo l'onore di Tempo e gliel'avrebbero fatta vedere loro, tutti assieme, alla gente della Terra Rotonda che non faceva che brontolare. Decisero, con sottile cattiveria, che avrebbero iniziato a correre più veloci ancora una domenica mattina e così fu. La Messa finì in un battibaleno e quando la gente uscì sul sagrato e si avviò verso la pasticceria, per comperare le solite quattro pastine per il dopopranzo, si accorse che era già l' una del pomeriggio e le lasagne stavano ancora nella loro teglia sul tavolo di cucina. Le donne corsero a casa per infornare il pranzo e i mariti rinunciarono all'aperitivo perché era ormai tardi anche per quello. Nemmeno il tempo di mettere in bocca la prima forchettata che era già ora di Gran Premio in tivù e là già correvano di solito come matti, quella domenica sembrò persino che corressero di più.

Gennaro però era contento. Quello era il suo ultimo giorno sulla piattaforma in mezzo all'Oceano. L'indomani, l'elicottero sarebbe passato a prenderlo per portarlo a casa e così avrebbe potuto abbracciare il suo bambino appena nato che non aveva ancora visto. Non vedeva l'ora e anche qui è un modo di dire, ma nemmeno poi tanto, visto come correvano sui quadranti degli orologi era difficile anche vederle, quelle ore benedette.

Nella Terra Rotonda si creò un gran caos: gente che perdeva il treno, l'aereo e anche la fidanzata perché arrivava tardi all'appuntamento. I programmi televisivi erano in tilt: il Bravo Presentatore non faceva in tempo a iniziare lo show che era già finito tutto. Quella settimana durò come tre giorni e ci furono interpellanze in tutti i Parlamenti della Terra Rotonda. Ci fu chi propose di abolire gli orologi e di tornare alla vecchie clessidre, ma chi ci provò racconta che la sabbia cadeva giù velocissima. Per forza, il signor Tempo si era ricordato di avvisare anche loro e con esse il Sole e la Luna che nacquero e sparirono in un battibaleno.

Emily e Peter si disperavano perché la loro settimana di viaggio di nozze stava finendo troppo presto. Non facevano in tempo a sussurrarsi parole dolci sotto la Luna che questa spariva e appariva l'Alba e poi era già tempo di fare colazione.

Insomma qualcuno era contento, qualcun altro no, come sempre del resto, e la settimana dopo si dettero il cambio e chi era stato contento prima, si lamentava poi.

Samantha, che doveva partire per raggiungere il suo amore, continuava a sbirciare l'orologio, ma le ore se la prendevano con calma, con troppa calma. Quando finalmente arrivò il lunedì, in Parlamento, ci furono sedute lunghissime per capire il perché di quella situazione e, nel frattempo, c'era chi si addormentava sui tavoli, a scuola come al lavoro.

Il Grande Presidente del Paese Più Importante Del Mondo che stava sonnecchiando, da quanto era annoiato a quel congresso che non finiva mai, decise che bisognava fare qualcosa.

«Potremmo inventare un calcolo del tempo tutto nostro», sussurrò sbadigliando al suo Assistente che non lo lasciava mai.

«Ma come facciamo Presidente ad avvisare tutto il mondo? E se poi gli altri Paesi non fossero d’accordo?», rispose l’Assistente che si era preso uno spavento, essendo stato svegliato così all’improvviso.

Fecero un referendum in tutta fretta e il risultato fu l’assoluta parità: c’era a chi andava bene così e a chi no, esattamente il cinquanta e il cinquanta per cento.

Il latte andava a male dopo dieci ore e i pulcini nascevano già galline. Gli studenti ormai dormivano in classe e i loro genitori si trascinavano in giornate che non finivano mai.

Il signor Tempo si divertiva come un pazzo perché a lui piaceva sia correre sia andare piano e si stupiva di vedere quanto fossero brave le Ore a fare la loro parte, ma l’esperimento finì e tutto tornò alla normalità e il popolo della Terra Rotonda riebbe la sua vita normale. Chiaramente ricominciarono le lamentele: «Uffa, ma questo tempo non passa più?», diceva qualcuno, ma c’era subito chi gli rispondeva: «Vuoi forse che Natale arrivi in un baleno e così non ti godi neppure l’estate?», e allora quel qualcuno taceva. Poi era il turno della solita innamorata che avrebbe voluto delle ore più lunghe e subito le veniva ricordata la noia della settimana prima. Piano piano nel popolo della Terra Rotonda avvenne uno strano processo di rassegnazione. Lasciavano il signor Tempo libero di scorrere come doveva, lamentandosi sempre meno, anzi iniziarono persino a essere più saggi e tirarono fuori vecchi proverbi che facevano un gran piacere al signor Tempo che si sentiva molto considerato.

Il tempo è galantuomo perché con il suo passare attenua i grandi dolori”, dicevano, oppure “Chi ha tempo non aspetti tempo”, perché il tempo non va sprecato e poi molti altri ancora, ma quello che piaceva di più di tutti al signor Tempo era “Dai tempo al tempo” che vuol dire che prima poi le cose si risolvono, ma egli preferiva pensare che fosse una specie di risarcimento nei suoi confronti.

Noi glielo lasciamo pensare, in fondo poco importa perché il tempo trascorre alla sua maniera, nonostante la nostra gioia e il nostro malcontento. Fa semplicemente il suo dovere e se anche noi faremo il nostro con gioia e passione, godendo della vita momento per momento, non ci verrà nemmeno in mente di stare lì a guardare sempre l'orologio.

 


 








 


Romeo e Giulietta.

E se fosse andata così?

Atto quinto - Scena Seconda - Un cimitero. Monumento dei Capuleti

Paride è seduto accanto al sepolcro
Paride: Tesoro mio che non ho potuto amare, mentre ti calavano nel sepolcro pareva tu dormissi. Il tuo viso conserva ancora il rossore dell'ingenua tua persona che mai conobbe le gioie dell'amore e che un destino avverso ha voluto negarti. Perché, mio Dio, tieni in vita vecchi e malconci individui e privi il mondo di giovinezza e ingenuità? Non senti i lamenti della gente derelitta che chiede solo di essere sollevata dai dolori dei mondo? Perché non dai ascolto a quelli e lasci vivere chi vuole vivere e amare? Ma sta arrivando qualcuno...Chi si permette di profanare il mio talamo nuziale di morte, l'unico che mi è possibile condividere con la mia amata?

Entra Romeo con un piccone,e una leva di ferro in mano, Paride si nasconde
Romeo: Mia dolce Giulietta, eccomi a te. Ho meco il veleno che ci farà unire per sempre davanti all'eternità. (dicendo questo infila la leva nella fessura del sepolcro e battendoci sopra ne alza il coperchio)

Paride: (uscendo dal nascondiglio): Che fate, vile assassino? Non vi è bastato farla morire di dolore dopo averle ucciso il caro cugino? Ora volete profanare la sua tomba. Mi costringete ad arrestarvi.

Romeo: Uccidetemi piuttosto, vi prego, io voglio giacere con la mia amata per l'eternità..

Paride: Ma quale amata? Giulietta a me era promessa, voi che c'entrate? Oppure c'è qualcosa che io non so, che mi sfugge?

Si sente un lamento flebile provenire dal sepolcro.

Romeo: Lo sentite anche voi questo mormorio, conte Paride? Come di un'anima che a lungo ha dormito e che ora vuole tornare a far parte di questo nostro mondo?

Paride: Voi vaneggiate, non sento alcunché. Non mi sfuggirete con queste scuse da quattro soldi. In guardia!

Giulietta: Chi osa profanare questo sacro luogo con duelli di sangue?

Paride e Romeo si affacciano all'apertura della tomba dove Giulietta giace con gli occhi aperti.
Paride: Amor mio...
Romeo: Amor mio...

I due uomini si guardano

Giulietta: .Perché all'improvviso, bei forestieri, usate parole dolci? Chi è l'amor vostro che vi ricordo tanto? Ho dormito un sonno lieve come la piuma di un uccello scivolata dal nido in un batter d'ali e voi mi parlate d'amore. L'amore, quel sentimento che non mi è dato conoscere se non nella forma dell'amor sacro, quello per nostro Signore.

Romeo: Che dite Giulietta? Voi siete la mia sposa!

Paride: Che dite Romeo? Ella è la mia promessa.

Giulietta si alza a sedere

Giulietta: Che dite entrambi? Come vi permettete di inventare simili bugie? Io non vi conosco, miei signori, anzi mi chiedo che ci facciate qua e perché io stia dormendo in un sepolcro invece che nel giaciglio di casa mia. Dov'è la mia brava nutrice e il mio signor padre? Chiamateli, io sono Giulietta dei Capuleti.

In quel momento entra frate Lorenzo e rimane interdetto a vedere Paride e Romeo assieme accanto a Giulietta
Frate Lorenzo: Che succede qua, che è stato?

Si avvicina a Giulietta.
Frate Lorenzo: Voi siete viva, mia cara.

Giulietta: Sono viva e non mi capacito del mio essere in questo sepolcro. Chi ha commesso l'errore di credermi morta? E se non fosse per questi due forestieri che hanno forzato il mio sepolcro, ora forse starei dormendo un sonno eterno nella disperazione di non poter uscire da questa tomba fredda e umida.

Rivolta a Paride

Chiedo a voi di andare a chiamare la mia nutrice e voi invece, rivolta a Romeo, aiutatemi a scendere da questo sepolcro nel quale non voglio stare un attimo di più. Poi mi si spiegherà il motivo di questa strana situazione che io non ho cercato.

Paride si allontana. Giulietta scende aiutata da Romeo e poi improvvisamente lo abbraccia.

Romeo: Voi mi riconoscete mia dolce sposa.

Giulietta: Come potrei dimenticare il mio Romeo?

Romeo: Allora perché fingeste di non avere memoria? Mi sono sentito vivere quando avete aperto gli occhi e sono morto subito dopo quando avete detto di non ricordare nulla di me. Mia cara, siete ancora più bella di quel che ricordavo.
Frate Lorenzo: E ora? Che farete quando il conte tornerà con la nutrice?

Giulietta: Dirò loro di voler andare in convento perché Dio mi ha salvata da morte certa E ci andrò davvero e voi, buon frate, mi accompagnerete assieme alla mia nutrice, ma dovrà essere un convento di clausura dove non si possa uscire e nemmeno ricevere visitatori.

Frate Lorenzo: Ve n'è uno in quel di Peschiera...

Romeo: Ma che dite, mia cara? Voi siete la mia sposa, e voi frate Lorenzo che siete l'artefice di questa unione volete forse rimangiarvi la parola e rendere vano un sacramento che voi stesso avete celebrato?

Giulietta: Non capite, mio buon Romeo, che è necessario che io me ne vada per un po' di tempo? Poi, quando la città non parlerà più di me, voi mi potrete raggiungere e finalmente coroneremo il nostro sogno d'amore.

Romeo: Mi chiedete molto.

Giulietta: Conoscete forse altro modo?
Entrano la nutrice e padre Capuleti, seguiti da Paride.
Giulietta: O padre ! Ero morta e il Signore non mi ha voluta e mi ha rimandata qua perché io possa servirlo.

Padre: Figlia mia ritrovata non è questo che il Signore vuole da te, ma che tu faccia una bella famiglia con questo gentiluomo. E indica Paride. E voi Romeo, come mai qua?

Romeo: Signore...

Gulietta: Come fate a non capire Padre mio che questo mio ritorno alla vita altri non è che un segno del Signore? Un modo per farmi capire che devo essere sua e di nessun altro?

La nutrice guarda sgomenta Fra Lorenzo che le fa cenno di stare al gioco di Giulietta.

Nutrice: Creatura mia adorata, luce dei miei occhi e bellezza infinita, voi siete viva. Quante lacrime ho pianto al pensiero che colei che le mie mammelle hanno nutrito con amore e dedizione potesse essere perduta per sempre. È un miracolo e io sarò con voi in ogni vostra scelta e volentieri vi accompagnerò al convento, se questo è il vostro desio. La abbraccia

Paride: Voi non potete, mi siete promessa e tu Romeo perché venisti al sepolcro della mia promessa? È quello che vuole sapere anche Messer Capuleti, non ci è chiaro il vostro intento.

Il padre di Giulietta annuisce

Romeo: Io volea chieder perdono per il dolore che involontario le provocai, con la morte del cugino Tebaldo che morì per mano mia che dovevo vendicare un amico...

Fra Lorenzo: Non è il momento questo, cari signori, di rivangar offese antiche. Chi non c'è più non si lamenta affatto, è ai vivi che dobbiamo pensare, ora.

Venite Giulietta, ora si va al convento di Peschiera. Si rivolge al padre di Giulietta.

Se volete essere così gentile da prestarci una carrozza...

Padre: Voi scherzate Frate, io porterò la mia figliola dove ella desidera andare e prima ancora la porterò a salutare sua madre che piange da giorni lacrime di disperazione. Venite, orsù, Giulietta, fate il vostro dovere di buona figliola poi noi rispetteremo il vostro di volere. Rivolto a Paride. Mi rincresce non tener fede alla parola data, conte carissimo, ma le circostanze sono ora mutate e la mia figliola ha il diritto di seguire il suo destino. Se vuole essere la sposa di nostro Signore io non sono nulla per impedire che ciò accada. Poi rivolto a Romeo e voi Montecchi portate le condoglianze al padre vostro e anche con voi mi rammarico della morte di vostra madre, vittima innocente di traversie estranee. Da qualche ora gira la notizia per Verona, se correte la potrete rivedere per l'ultima volta.

Romeo: Che dite? Mia madre morta? e piangendo corre via

Giulietta: Povero ragazzo. Montecchi dite? Egli dunque è Romeo dei Montecchi, la casata che ci è nemica? Perché padre mio intercorre tanto fiele fra le nostre famiglie? A causa di cosa? Conosco da sempre questa nostra rivalità ma non ne ho mai saputa la ragione.

Padre: Non son cose da donne, ruggini antiche di cui persino io ho perso la memoria.

Giulietta : Or che avrò modo di stare sempre vicina al Signore nostro per poterlo pregare in continuazione voglio chiedergli che ogni rancore venga cancellato dal vostro cuore, perché il male scava torrenti che poi diventano fiumi e devastano tutto ciò che trovano sul loro cammino. Vedete? Nemmeno vi ricordate il motivo dell'astio con i Montecchi. Che senso ha coltivare il male in seno come una serpe cattiva che poi si rivolta e ci uccide con il suo veleno?

Padre: Dite parole più grandi di voi, mia cara figliola, già parlate come una monaca e non siete ancora entrata in convento. Debbo ammettere, però, che non avete torto. Troppo tempo si è consumato in quest'odio atroce. Andrò da Messer Montecchi a porgere le mie condoglianze, di persona senza guardie al seguito, un primo passo verso la riconciliazione, ma prima vi accompagno da vostra madre che ha ormai finito le lacrime.

Escono a braccetto seguiti dalla nutrice

Paride: Qualcosa mi sfugge, ma dirlo non so...ed esce a sua volta.

Fra Lorenzo facendo il segno della croce: Benedico tutti e speriamo che le cose vadano come debbono andare.

Esce.


Atto quinto. Scena terza. Una piazza di Verona.


Messer Montecchi è fermo in un angolo della piazza a ricevere condoglianze quando gli passano accanto Messer Capuleti con Giulietta e nutrice.


Messer Montecchi: Per una che resuscita un'altra muore...

Giulietta sussurrando: Non rispondete padre, egli è un uomo devastato dal dolore.

Messer Montecchi: e muore proprio a causa del gran dolore del saper il figlio lontano, esiliato come se avesse bubboni di peste che lo rendono inavvicinabile. Che ha ucciso per vendicare un amico. Che ne sapete voi di sentimenti di amicizia? Il mio cuore è devastato dal dolore e mio figlio ora rischia l'arresto per esser tornato a piangere sua madre. La mia vita è finita, lo capite?

Messer Capuleti: A me lo dite? Che sto consegnando la mia unica figlia nelle mani del Signore perché questo è il suo volere. Il Signore me l'ha restituita, ma ora reclama il prezzo della sua immensa bontà e sua madre si macererà nel dolore di non avere nipoti che le perpetuano il destino. Chi di noi è più finito?

Passa il Principe e si ferma davanti al gruppo di persone.

Principe: Giusto voi stavo cercando e vi trovo assieme. Potrò così evitare due visite distinte. Rivolto a Messer Montecchi Piango con voi, mio caro amico, per la dolorosa dipartita e mi stupisco di vedervi in compagnia del vostro secolare nemico. Allora sapete già?

Messer Montecchi: Che c'è da sapere ancor che non si sia detto?

Principe: Ho incontrato Fra Lorenzo che mi ha narrato di matrimoni segreti, di veleni che non uccidono, di due pretendenti sul sepolcro della finta morta.

Messer Capuleti: Non capisco...

Messer Montecchi: Che andate raccontando?

Principe: Signori miei, sono contento di essere proprio io a darvi la novella. Dopo secoli di odio feroce, di cui si è perso il motivo perché la mente è labile ma non altrettanto l'abitudine all'odio, i vostri figlioli hanno fatto sì che questa disputa finisse.

Giulietta: Signore Principe non credo che gradiranno...

Principe: Che dici fanciulla cara? Come si può non gradire un simile avvenimento?

Messer Capuleti: Di che parlate Principe? Orsù esprimetevi

Principe: In fine le vostre famiglie si sono unite perché questa fanciulla, rivolto a Messer Montecchi, altri non è che la sposa di vostro figlio.

Giulietta sviene, prontamente assistita dalla nutrice mentre i due padri rimangono senza parole.

Principe: Peccato che una tal gioia sia al seguito di tanto dolore, ma il destino si alterna fra la vita e la morte e noi non possiamo proprio farci nulla. Vostro figlio Romeo verrà da me graziato e potrà vivere così con la sua sposa nella vostra magione che riempiranno di trilli infantili che vi leniranno il dolore. Andate, su...

Messer Montecchi: Non ho più nemmeno la forza di arrabbiarmi.

Messer Capuleti: Poi Principe ci spiegherete tutto...

Principe: Dopo dopo, andate ora che c'è da preparare un addio prima di dare il passo al nuovo.

Esce dalla scena e cala il sipario.